Ci sono luoghi in cui la memoria resta più viva, impressa tra le pareti lucide degli edifici, o tra le pietre grigie di eterni manieri in rovina. Posti in cui le mura parlano, sussurrano fra loro di fatti ed eventi dimenticati, sconosciuti, rimasti inspiegati.
Mura a volte logore e decadenti ospitano stanze in disuso da generazioni, lunghi corridoi immersi in silenzi quasi sovrumani, rotti solo dallo scalpiccio di qualche creatura della polvere, o di chi, come noi, riesce ad avvicinarsi.
Pur disponendo di regolare permesso, varcare la soglia della clinica abbandonata nel secolo scorso rende instabili i battiti del mio cuore. Ho come l’impressione di avvicinarmi a qualcosa di proibito, di varcare una porta dove la mia presenza non è gradita.
Come sempre, il team di GHW è già in azione, lontano da me, e io tergiverso, incerta sul da farsi.
Non avevamo più parlato della precedente indagine, non so nemmeno se loro sappiano. E per quanto mi sforzi di ricordare, ora il passato appare incerto anche a me, quasi come se gli eventi di cui ho narrato non fossero realmente avvenuti, quasi come se si fosse trattato di un sogno lontano.
L’unica cosa di cui sono certa, poiché ho ascoltato uno dei ragionamenti del team, sta nel fatto che alla villa non vi è alcun custode. Io ricordo bene il tipo che, in religioso silenzio, ci aveva indicato la via per la Pieve. Probabilmente si trattava di un senzatetto che viveva abusivamente tra quelle mura spacciandosi per il custode, anche se dall’espressione che aleggiava sul viso di Michela mi pareva che quella spiegazione non la convincesse del tutto.
Ora sento Michela intimare il silenzio: la sessione è cominciata. Non voglio avvicinarmi troppo, non voglio disturbarli. Così vago in quell’immensa e dimenticata struttura, attenta a non fare rumori, guardandomi attorno con circospezione. Per quanto strano, sembra che il tempo lì sia semplicemente trascorso. C’è disordine, ma il mobilio delle stanze è esattamente com’era allora, solo in piena decadenza. I letti sono ossidati, materassi rotti, ante ribaltate. Come se quella creatura fosse viva, e invecchiasse lentamente, arrendendosi al suo destino. Le finestrelle delle porte sono rotte, ma non tutte. Quelle del portale che mette in comunicazione l’ingresso principale con le stanze, ne ha rotte tre. L’osservo, mentre ritorno sui miei passi: una bella porta verde che avrà visto il passaggio di decine e decine di persone, avrà udito lamenti, chiacchiere, discussioni. E’ piena di polvere, oggi, e in quella polvere traccio uno schizzo con la punta delle dita. Non so perché lo faccio, forse per lasciare qualcosa di me in quel luogo abbandonato. Lascio sempre qualcosa di me nei luoghi che seguo. Anche alla villa.
L’arrivo dei GHW spezza la corrente dei miei pensieri ed è meglio così: non sembra che la prima sessione sia andata molto bene. Li ascolto parlare: stanno per girare una diretta. Decido di rendermi utile e di tenere in mano la telecamera mentre registrano, così almeno potranno vedersi tutti e tre. Come sempre salutano il pubblico, l’amica Angela, e altre persone che seguono. È bella questa abitudine di salutare tutti, per renderli partecipi… fa sentire più vicini, più squadra. Stanno per parlare del posto quando un rumore, forte, inspiegabile, ci fa girare tutti nella stessa direzione. E la diretta si spegne.
Bianca in volto, Beatrice passa lo sguardo sui compagni.
Non è necessario chiedere chi abbia sentito cosa, perché tutti ci stiamo guardando preoccupati.
Fabio prende subito in mano la situazione e, a grandi falcate, parte nella direzione da cui è provenuto il tonfo. L’ambiente, opposto a quello dove sono io, è anche molto diverso dal precedente: evidenti segni di decadenza lo attraversano e qui le stanze sono state svuotate, il contenuto riverso nei corridoi. Le grandi colonne sono state insudiciate dall’operato di qualche bulletto e contribuiscono a rendere l’ambiente sempre più fatiscente. Fabio intanto dice che secondo lui c’è qualcun altro, oltre noi. Noi lo seguiamo, piuttosto tesi, verso l’ala che GHW dovrebbe indagare.
«Stiamo andando nella stanza dove, si dice, ci siano energie particolari.» spiega Michela, «In quella stanza è morta in modo atroce una persona.»
Beatrice riprende la scena con la videocamera, io cerco di restare fuori dall’obiettivo. Superiamo materassi malconci e seggiole, letti ribaltati e non so quante porte che si aprono in file parallele lungo il corridoio.
Solo allora mi accorgo che il muro è di due colori: verde e bianco.
Michela entra con decisione in una camera, seguita dagli altri.
Io mi trattengo sulla soglia, osservo l’interno. Non ci sono tracce del nostro rumoroso ospite, ma il caos è abbondante: oltre a letti ammassati, lenzuola logore e materassi smembrati, c’è una scaffalatura dalla quale piovono carte di ogni tipo. Dalle pareti scendono calcinacci più o meno grandi e Michela azzarda l’idea che si trattasse proprio della caduta di uno di essi. Seguono le ipotesi: un animale? Un’anta che si è rotta improvvisamente? Beatrice come al solito esclude l’anomalia, Michela ha qualche dubbio. Io resto in disparte, osservo questa immensa distesa di spreco, di vite buttate, di oggetti che magari qualcuno amava pure. Sento pulsare la cicatrice che ho sulla mano e ritorno al momento in cui caddi in ginocchio davanti alla tomba di Julio e mi ferii con la croce di ferro battuto.
Non devo pensarci. Chiudo gli occhi, prendo fiato, non permetto alle pulsazioni del mio cuore di accelerare.
Respira. Mi dico, respira.
L’attimo viene e passa e torno alla stanza. Michela annuncia che faranno una sessione, e faccio alcuni passi indietro.
«Non è una buona idea, separarci.» dice Beatrice. Ha ragione. Se penso che poco prima me ne sono andata in giro da sola… ma non ho paura. Non più di tanto.
La sessione inizia. Ci sono ombre cupe che attraversano la grande stanza e mi chiedo come sia questo ambiente nei giorni di pioggia, quando le minuscole gocce si abbattono contro alle vetrate, o come sia quando la primavera sbaraglia l’inverno e i giochi di luce si inseguono su quelle pareti colorate. Cosa vede questo luogo prima di cedere alla notte, e cosa vede quando il sole sorge ogni mattina? Nel mio cono d’ombra non posso che immaginare la creatura che vive qui, che attraversa corridoi infiniti, che sospira in attesa di qualsiasi cosa possa attendere, e che si meraviglia, forse, davanti al passaggio di infinite epoche e stagioni.
Chiudo gli occhi. Sento piovere, ma so che è solo nella mia mente. Piove forte, contro i vetri, mentre la voce di Michela si fa più lontana. E di colpo mi accorgo che la pioggia non è affatto nella mia immaginazione, ma il rumore di acqua c’è realmente, e il suo eco rimbalza lungo il corridoio che procede verso l’oscurità più buia.
Mi sento rabbrividire. Non voglio controllare, ma devo farlo. Mentre mi avvicino all’oscurità il rumore si fa più forte, decisamente più forte. Poi, all’improvviso come è cominciato, svanisce. Torno indietro. Non c’è più. Semplicemente, non c’è più.
I GHW escono dalla stanza, non riesco a decifrare le loro espressioni. Fabio guarda la termocamera, la punta nella mia direzione.
«La temperatura è scesa di colpo.» annuncia. Michela armeggia con qualcosa, lo punta verso il corridoio. Sono pronti. Io no.
Mi butto contro la parete, respiro forte. Il freddo mi avvolge.
E poi, esattamente com’è accaduto con le gocce d’acqua, il gelo sparisce.
Passa avanti.
«Cos’è stato?» domando, agitata.
Michela scuote il capo. Beatrice è seria. Fabio impassibile.
«Dobbiamo analizzarlo…» mormora Michela.
Improvvisamente, un grido sovrumano, che pare arrivare dai meandri dell’ospedale, riempie il silenzio perfetto che si era creato. Senza un preciso accordo, corremmo tutti verso l’esterno. E, col cuore in gola e le mani tremanti, vedemmo qualcuno che ci osservava dalla finestra del secondo piano.
Qualcuno. O qualcosa.